Civita Castellana, il centro più popoloso ed attivo del basso Viterbese, sorge su un piano tufaceo dai pendii scoscesi,che coincide con il sito originario della città di Falerii Veteres. Essa si trova in una posizione centrale rispetto al territorio,denominato anticamente Ager Faliscus, che è costituito in prevalenza da un tavolato di rocce ignimbritiche,nel quale il fiume Treia, tributario del Tevere, e gli altri affluenti minori hanno inciso con un lavorio incessante dirupi e vallate. E' questo il suggestivo paesaggio delle forre, dove la terra si apre con fenditure a picco; dove la vegetazione si slancia dalle profondità,anelando verso lembi di cielo, e l'acqua, che fluisce perenne, palpita in filtrati fremiti di luce; dove i neri lecci e gli onnipresenti caprifichi orlano i precipizi, attenuando le tonalità accese delle pareti di tufo rosso.
L'orizzonte si esalta da un lato nella sublime solitudine del Soratte, evocato dal poeta latino Orazio nell'ode a Taliarco, o si compatta nelle quinte bluastre dei Monti Sabini, mentre nel lato opposto si addolcisce nei morbidi profili dei Monti Sabatini e Cimini (la Horrenda Cimina Sylva della descrizione liviana).Verso la campagna Romana lo sguardo si perde lontano dietro una remota fuga di colline, impassibili onde nel respiro del vento.
In questi luoghi la presenza dell'uomo risale a tempi immemorabili: egli ha percorso i sentieri di fondovalle,seguendo le vie d'acqua,veri e propri corridoi di comunicazione, ed ha fondato i primi nuclei insediativi, lasciando tracce di se nelle cavità naturali , nei ripari sotto roccia,che l'esplorazione degli archeologi ha reso noti con il nome di "cavernette falische".
Nell'antichità questa terra fu abitata dai Falisci, un popolo italico, che raggiunse un notevole livello di civiltà. Sebbene lo storico Strabone li definisce una "etnia particolare e diversa che parla una lingua tutta sua", i Falisci parlavano un idioma affine al latino, ma erano legati da stretti rapporti politici, culturali e religiosi con l' Etruria; con le principali città Etrusche mantennero solidali rapporti di amicizia, sviluppando traffici e scambi commerciali. I corredi funebri, rinvenuti nelle necropoli, che sono sparse nel territorio, i reperti archeologici portati alla luce negli scavi e le superstiti testimonianze monumentali documentano una prosperità economica che era basata prevalentemente sull'agricoltura (pomiferi....Falisci, li appella Ovidio in Amores III, 13), sull'allevamento del bestiame ,sfruttando gli ubertosi pascoli delle vallate, sulla coltivazione della vite e del lino. Fiorenti erano le attività artigianali,nelle quali risaltavano l'abilità tecnica e il pregio della fattura, sopratutto l'arte ceramica.Ne sono riprova i prodotti fittili, il vasellame di varia forma e colore , i rilievi frontonali e acroteriali,che ornavano i complessi templari, le statue, che, pur traendo ispirazione dai modelli greci, si caratterizzavano per gusto cromatico e vigore plastico.
L'esistenza si fondava su una concezione gioiosa e serena della vita, come possiamo arguire dai contenuti dei carmina fescennina e dai molti dipinti sulle coppe (foied vino pipafo cra carefo = Hodie vinum bibam cras carebo), che invitano alla spensieratezza,al godimento dei piaceri conviviali dell'amore. Alto era il concetto e profondo il rispetto per l'amicizia al punto che la cautela nelle scelte rischiava di essere fraintesa come altezzosa diffidenza,se dobbiamo presta fede alla citazione di sapore proverbiale tramandata dal lessico Suida: "Valendoti del filo a piombo dei Falisci non potresti mai trovare un uomo del tutto degno di amicizia".
Sicuramente i Falisci, che una leggenda delle origini faceva discendere dall'eroe eponimo Halaesus, figlio dell'Atride Agamennone, erano un popolo fiero, legato alle proprie tradizioni e ai propri culti religiosi. Essi opposero una strenua resistenza all'avanzata dei Romani il cui dominio andava consolidandosi nel Lazio e tendeva ad espandersi verso l'interno, lungo la valle del Tevere, e verso l' Etruria. Varie fonti storiche ci tramandano notizie relative a questa secolare lotta, nella quale i conflitti si alternavano a tregue e periodi di pace. Per arginare la penetrazione romana, i Falisci si allearono di volta in volta con i Veienti, i Fidenati e i Tarquiniesi, ma di fronte alla superiore potenza militare dovettero alla fine capitolare. L' ultimo tentativo di rivendicare la propria indipendenza si concluse nel 241 a.C. con la definitiva disfatta della nazione falisca: le legioni dei consoli Q.Lutazio Cercone ed A. Manlio Torquato investirono con formidabile impeto il baluardo di Falerii Veteres, nel quale i ribelli si erano rifugiati per organizzare l'estrema difesa. Con una guerra lampo, durata solo sei giorni, la città fu conquistata e distrutta:15.000 abitanti furono passati a fil di spada; furono sequestrati schiavi, armi, cavalli e masserizie; parte della popolazione fu ridotta in schiavitù; fu confiscata la metà del territorio. Ai consoli vittoriosi venne tributato un doppio trionfo. Tuttavia il sito non rimase del tutto inabitato e deserto. Furono risparmiati e furono a lungo frequentati i templi, in particolare quello di Giunone Curite, divinità tutelare del popolo falisco: nel I secolo a.C. il poeta Ovidio ci descrive i solenni riti che si celebravano annualmente nel suo santuario e qualche secolo più tardi l'apologeta cristiano Tertulliano torna a citare il culto della dea come peculiare dei Falisci.
Secondo un programma mirato all'occupazione ed al controllo del territorio la popolazione superstite fu trasferita in un luogo pianeggiante, di facile accesso, alcuni chilometri a Nord-Ovest. Ivi fu edificato un nuovo nucleo insediativo, Falerii Novi , attraversato dalla Via Amerina.
L' impianto è realizzato secondo la struttura dei Castra romani, imperniato sull'intersecazione cardo-decumano. A garantire la difesa venne innalzata una poderosa cinta muraria, con uno sviluppo di oltre due chilometri, che risulta in alcuni tratti ancora ben conservata. Nelle mura, costruite con grandi blocchi di tufo e rinforzate con cinquanta bastioni rettangolari, si aprono nove porte di varia ampiezza,tra le quali si distingue per la maestosa monumentalità quella cosidetta di Giove. L'evoluzione dell'oppidum romano e il problema del suo stato giuridico ancora non risultano del tutto chiariti, anche perchè gli scavi, sopratutto quelli dell'800, più che tendere al recupero e alla lettura del tessuto urbano, miravano al rinvenimento di materiali (statue, fregi, epigrafi) da immettere sul mercato antiquario per arricchire musei e collezioni private. Verso la metà del III ° secolo D.C. Falerii Novi dovette subire una contrazione demografica conseguente ad un impoverimento economico e sociale; per porvi rimedio l'imperatore Gallieno concesse particolari provvidenze che lo fecero apparire come secondo fondatore della città e lo reso meritevole di fregiarsi del titolo di renditegrator coloniae Faliscorum e del signum Falerius. Tuttavia la depressione che investi la città non rappresenta un caso isolato, fa parte di un processo più generale di decadimento, che coinvolge, seppure in misura diversa, l'intera regione: come è noto "la maggior parte delle città e delle stazioni stradali romane dell' Etruria meridionale cominciarono a declinare durante il medio Impero e non mantennero il loro status urbano oltre il V secolo (T.Potter).
Nel periodo tardo antico si accentua la crisi delle istituzioni politico-amministrative, aggravata dal collasso socioeconomico dell'impero Romano d' Occidente. L'esposizione e la vulnerabilità agli attacchi, le devastazioni provocate dalla guerra greco-gotica e poi le rovinose incursioni dei Longobardi accelerarono ulteriormente l'abbandono della città romana, favorendo il ripopolamento dell'antico sito che era in posizione arroccata, quasi inespugnabile. Il caposaldo assunse in breve tempo un rilevante ruolo strategico-militare, posto com'era a protezione del corridoio compreso tra la Tuscia Langobardorum e il ducato di Spoleto, nel punto in cui questo si riduceva ad un'ampiezza di appena venti chilometri; e nel contempo divenne un avamposto difensivo della città di Roma, proprio al confine della domusculta Capracorum.
I vescovi vi trasferirono ben presto la loro sede, sebbene continuassero a mantenere il titolo di faleritani.
Il primo riferimento al castello medievale si ricava da un atto del Liber Censuum, datata 727, con il quale Papa Gregorio II locavit monasterio sancti Silvestri in Monte Soracte fundum Cancianum ex corpore Massae Castellanae patrimonii Tusciae.
La citazione di Massa evidenzia l'esistenza di una proprietà fondiaria piuttosto estesa con una sviluppata economia agricola. Ma è soprattutto l'epigrafe del vescovo Leone (seconda metà del'VIII secolo o forse inizi del IX) a fornirci dati preziosi sulla situazione economica (vengono menzionati ad es. gli orti,una clusura pomata, cioè piantata a frutteto, noceti ed oliveti, un molino); sull'assetto politico-militare con la presenza di Tribuni e comites; sull'organizzazione ecclesiastica diffusa nel territorio con il riferimento alle chiese dedicate a San Clemente e San Gratiliano, all'opera di presbiteri e mansionari. L'appartenenza al Patrimonum Beati Petri è ribadita dal privilegium,con il quale nell'817 Ludovico il Pio conferma al papa Stefano V,che l'anno precedente l'aveva incoronato imperatore, terre e possedimenti in partibus Tusciae. La donazione viene rinnovata da Ottone I nel 962 e da Enrico II nel 1014.
L'incremento della città prosegue alla fine del primo millennio:esse acquista peso e potere nel territorio; la sua accresciuta importanza e dimostrata dall'evoluzione del nome: da Castellum a Civitas Castellana. Intorno all'anno 1000 il vescovo Crescenziano, ad emulazione dell'Imperatore Ottone III, per dotare la città delle reliquie di martiri, effettua ricerche nelle catacombe di Rignano, vi rinviene i corpi dei Santi Marciano e Giovanni, li trasferisce con una solenne cerimonia nella Cattedrale e li colloca sotto l'altare principale, proclamando i due santi nuovi protettori della comunità civitonica.
La cittadina espilcò poi un ruolo non secondario nella lunga lotta per il primato che vide contrapposto l'Impero al Papato. Infatti il controllo esercitato dai pontefici non ebbe carattere né stabile né continuativo, ma subì alterne vicende secondo il prevalere delle diverse fazioni. In essa nel 1101 trovò asilo e chiuse i suoi giorni l'antipapa Clemente III, cioè Guiberto di Ravenna, dopo che l'energico Pasquale II con un'azione precisa l'ebbe cacciato da Albano, dove si trovava sotto la protezione dei Conti di Campagna. Lo stesso Pontefice, per recuperare Civita Castellana dovette espugnarla con la forza "Civitatem Castellanam per suos aggressus, locum natura satis minutum , miro Dei auxilio vi virtuteque obtinuit"; da li nel Settembre 1105 inviò una lettera al preposto della chiesa di San Donato di Arezzo. Ma il castello offrì pure sicuro riparo ai pontefici, quando questi, paventando per la propria incolumità, furono costretti a sottrarsi alle minacce dei nemici: nel 1154 Adriano IV, sospettando circa le reali intenzioni dell'Imperatore Federico Barbarossa, che avanzava alla testa delle sue milizie, la scelse come proprio rifugio. Nel 1181 vi si spense Papa Alessandro III, il grande pontefice che aveva animato la lega dei comuni contro l'Impero.
Dal XV secolo la città torna stabilmente sotto il controllo della Santa Sede, che la cede dapprima in temporanea signoria ai Savelli e poi la regge con la nomina di un governatore, rappresentato spesso da un luogotenente.
E proprio sotto il governatorato di Rodrigo Borgia, che poi diviene papa con il nome di Alessandro VI, si assiste al riassetto del centro urbano: di questo fervore rimane la testimonianza diretta nella porta Borgiana, che si apre alla base dello sperone tufaceo, e nell' imponente rocca costruita ad opera del Sangallo il Vecchio , a protezione dell' istmo che congiunge la città all' entroterra.
Agli inizi del '500 l' opera fu portata a compimento da Giulio II della rovere, che vi fece aggiungere il mastio ottagonale. Un significativo sviluppo si registra pure nell' architettura civile, come dimostrano i palazzi rinascimentali (ad es. i palazzi Peretti e Trocchi), che dominano con i loro eleganti prospetti le più importanti vie cittadine, e la fontana dei draghi,fatta innalzare per pubblica utilità dal Cardinale Filippo Boncompagni nella Piazza di Prato. Dalla fine del secolo si attuano importanti interventi di razionalizzazione della rete viaria per migliorare le comunicazioni con la capitale: papa Sisto V inizia la costruzione del ponte Felice sul Tevere per levare ai passeggeri l' incomodo e il dispendio di tragittare con barca il Tevere; nel 1609 viene tracciata la variante della via Flaminia, con una deviazione,che si diparte dall'Osteria di Stabbia; Agli inizi del '700 mediante l' ardito ponte Clementino viene travalicata la forra del Rio Maggiore e alla fine del secolo è realizzato il collegamento tra la Cassia e la Flaminia, con il raccordo della via Nepesina (1787 - 1789).
Nel 1798 lo Stato Pontificio fu occupato dalle armate rivoluzionarie e fu proclamata la Repubblica Romana. Nel nuovo assetto amministrativo, con il quale si tentò di ammodernare l' organizzazione del vecchio regime ed introdurre le riforme, Civita Castellana venne a far parte del Dipartimento del Tevere. Nel novembre dello stesso anno il Re di Napoli, al comando di un esercito di 40.000 uomini, marciò su Roma costringendo i Francesi a ritirarsi, ma nella battaglia che si accese nei dintorni di Civita Castellana i reparti napoletani furono sconfitti.
Proprio alla fine del secolo XVIII comincia il processo, che segna lo sviluppo della città: si deve all' iniziativa e all' ingegno di figure come il Valadier, il Volpato e il Coramusi, lo sfruttamento delle cave di argilla, rinvenute nei pressi del Monte Soratte. Nella loro intraprendenza essi non si limitano ad ottenere la privativa per l' estrazione ma migliorano gli impianti, adeguando la produzione locale ai nuovi modelli e ai nuovi busti. dai primi del Novecento alle stoviglierie si aggiungono gli articoli idrosanitari facendo divenire l' industria ceramica la risorsa principale dell' intero comprensorio, l' attività produttiva che lo caratterizza e lo rende noto in tutto il mondo.
Durante il risorgimento la fortezza del Sangallo, trasformata in prigione, diventò tristemente famosa con il titolo di Bastiglia dello Stato Pontificio: il governo papale vi fece languire in anguste celle i patrioti, che cospiravano per ottenere l' unità e l' indipendenza d' Italia. tra le sue mura fu rinchiuso per breve tempo anche Felice Orsini, il futuro attentatore di Napoleone III.
Dopo l' annessione delle Marche e dell' Umbria e la proclamazione del Regno d' Italia, Civita divenne per circa un decennio città di confine, ma il 12 settembre 1870 le truppe Italiane al comando del Generale Raffaele Cadorna Invasero lo Stato Pontificio e costrinsero alla resa, dopo un debole tentativo di resistenza, la compagnia di Zuavi che doveva garantire la difesa della piazzaforte.
Il novecento è caratterizzato da un incremento demografico senza precedenti e da uno sviluppo produttivo che ha fatto diventare Civita Castellana il polo di un attivo comprensorio industriale. Il centro abitato contenuto per secoli entro i limiti del pianoro tufaceo si è sviluppato al di là delle forre seguendo come direttrici di espansione le principali vie di comunicazione. Alle soglie del terzo millennio Civita Castellana si presenta come una cittadina moderna, dotata di servizi e strutture, con un economia capace di accogliere le innovazioni tecnologiche e pronta ad affrontare le nuove sfide che il mercato della globalizzazione ormai impone.